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Ευρωπαϊκή Εταιρεία Νεοελληνικών Σπουδών

Γ΄ συνέδριο της Ευρωπαϊκής Εταιρείας Νεοελληνικών Σπουδών

Anastasia Stouraiti

Geografie del trauma e politiche di lutto: racconti sulla perdita delle Isole Ionie a Venezia[1]

In questo saggio userò la fine della dominazione veneziana nelle Isole Ionie (1797) come caso di prova del ruolo della teoria del trauma culturale nell’illuminare questioni storiografiche e problemi sociali come la formazione dell’identità nazionale. In particolare, verranno considerate fonti veneziane dell’epoca che incorporano l’esperienza storica della separazione dell’Eptaneso da Venezia come un’esperienza traumatica e verrano trattati i modi con i quali i veneziani, anni dopo che le isole erano state perdute, continuavano a manifestare una specie di narcisistica identificazione con esse. Sulla base di un approccio comparativo, che mette le testimonianze veneziane in contrappunto con simili testi scritti da intellettuali greci nella città lagunare, spero di offrire una migliore comprensione delle dimensioni simboliche dell’evento sotto esame e di evidenziare alcune domande che esso pone riguardo alla dinamica e alla politica della memoria. Prendendo spunto dal dibattito teorico sul collegamento fra trauma, memoria e storia, la mia analisi si concentrerà sulle questioni che l’investimento emotivo dell’evento da parte dei contemporanei fà emergere: in quali modi il lutto fa parte del processo del ricordarsi? Come la registrazione della memoria individuale in testi culturali funziona come rappresentazione di sofferenza collettiva? Come certi luoghi e spazi geografici diventano siti di lutto articolando rapporti di potere, ideologie in conflitto e passati contestati da gruppi sociali diversi?

Il discorso sulla perdita delle Isole Ionie a Venezia si inserisce nel grande racconto che promuove e sancisce il culto del passato della Repubblica dopo la caduta. La cultura veneziana dell’epoca, affrontando la storia della città nello stesso contesto con quella dello stato veneziano e delle colonie d’Oltremare, venne formata attraverso narrazioni di un glorioso passato che compiansero il trauma storico della fine violenta. Tali traumi sono decisivi per la formazione e la storia dei gruppi sociali: essi pongono la problematica questione dell’identità culturale, influenzano la comprensione degli eventi storici e definiscono la costruzione della storiografia nazionale.[2] Nel caso di Venezia, siamo in presenza di una produzione storiografica fedele al trauma e resistente alla sua elaborazione, una sorta di caso clinico centrato sulla difficoltà veneziana di fare i conti con il proprio passato.[3] Un rapporto irrisolto con il passato può portare alla malinconica ricerca del tempo come pure del luogo perduto. Sappiamo però che la nostalgia è sempre ideologica: “il passato che lei cerca non è mai esistito tranne come narrazione, e di conseguenza, sempre assente, il passato in continuazione minaccia di riprodurre se stesso come una mancanza sentita”.[4]

Per capire meglio le dimensioni ideologiche dell’impatto emotivo delle Isole Ionie a Venezia, bisogna considerare sia i rapporti storici delle isole con Venezia sia la natura dello stato veneziano. Riguardo ai primi, le Isole Ionie erano state uno spazio strategico per l’egemonia veneziana nel Mediterraneo orientale e, specialmente nel Settecento, avevano assunto un rilievo eccezionale essendo tutto quello che ormai rimaneva dell’impero veneziano nel Levante.[5] Per quel che riguarda invece la seconda, lo stato veneziano e la sua capitale si identificavano con un impero marittimo e tale identificazione, basata sulla continua interazione fra gli interessi continentali e quelli marittimi, faceva sì che la visione del dominio veneziano come un unico corpo fosse elemento definitivo del senso dello Stato a Venezia.[6] Di conseguenza, la fine dell’impero significava anche la fine dello stato, che poi rappresentava per Venezia la prima esperienza di dominazione straniera nella sua millenaria storia. Ecco perchè, la censura da psicanalitica si faceva politica nella Memoria patriotica sui novellisti che chiedeva il controllo della circolazione delle notizie diffuse per allarmare il popolo spargendo voci “di sorprese fatte dagl’Inglesi alle Fortezze ed Isole Venete del Levante” con il risultato che “la popolazione della Capitale si è attristata sulla supposta perdita degli stabilimenti importantissimi del Levante”.[7] In altre parole, la perdita dei possedimenti nello Ionio, visti non semplicemente come periferici territori di conquista ma come parte costituente dello stato, non poteva non avere dirette conseguenze negative sul destino della stessa Repubblica.

Due altre testimonianze della prima metà dell’Ottocento possono gettare luce sul ritorno di questa rimozione, che al di là di ogni tentativo di riassorbimento per via logica mantiene intatto il lamento dei “se fosse” o “se non fosse”. La prima viene dal grande bibliografo ed erudito Emanuele Antonio Cicogna, che nei suoi Diari alla data del 28 agosto 1816 annota:

“Ragionavasi col co. Camillo Giacomazzi, colla co. Mangilli ec. sulla caduta della Repubblica Veneta e dirittamente se ne attribuiva la cagione a’ gentiluomini veneziani, i quali se avessero pensato di star saldi e difendere i propri stati avrebbero durato ancora; e dicevasi che se anche avesser dovuto perdere la Terraferma, si sarebbero conservati in mare col far lega cogl'Inglesi e tenersi le Isole del Levante. Io poi diceva altrimenti, e con meco eran degli altri, che se non fosse caduta allora la Repubblica, lo sarebbe caduta poch’anni dopo, perché come mai resistere alla potenza di Napoleone?”.[8]

Il riferimento ad una tale immaginaria continuazione di Venezia attraverso i possedimenti nello Ionio conferma di nuovo l’identificazione della Repubblica con quelli frammenti imperiali offrendoci una spia del tradizionale approccio veneziano alla formazione dello stato in età moderna. Quaranta anni più tardi, Girolamo Dandolo nelle sue Memorie storiche ripeteva in altra forma le stesse parole rilevando che, anche se Venezia avesse perduto la Terraferma, “colle proprie forze marittime, e coll’aiuto dell’Inghilterra, avrebbe potuto mantener sempre libere le sue comunicazioni col mare”. “D’altronde però”, aggiunge, “ridotta alle sole risorse della città capitale, col peso della Dalmazia e delle Isole Ionie, sarebbesi trovata in così fatte distrette, da non potervi durar lungamente”.[9]

Il discorso sulla perdita delle Isole però non si limita al rammarico per una territorialità scomparsa, idealizzata attraverso la memoria e il desiderio, neanche alla nostalgica contemplazione del passato, ma mette in evidenza il tema cruciale dei rapporti con i popoli dell’impero. Se le ultime manifestazioni di fedeltà dei dalmati erano in sintonia con l’ideologema della spontanea dedizione e il consenso dei sudditi, il comportamento dei greci fu percepito sotto il segno della differenza. Come spesso avviene, nulla esemplifica meglio tale struttura di un testo satirico, il Dialogo fra Marco e Teodoro, le statue simbolo che si parlano dall’alto delle due colonne sul molo:

“Mar. Trascorsi la Dalmazia tutta, e posso dirtelo, con somma compiacenza…
Teod. Passasti pòscia in Levante?
Mar. No.
Teod. Ma perché?
Mar. Mel chiedi?
Teod. Si, … si, hai ragione. Ti chiedo scusa se irragionevolmente t’abbia io interrotto”.[10]

Il dialogo è apparentemente cifrato, poiché sottintende il topos del contrapposto atteggiamento dei sudditi dalmati e di quelli greci. Tale differenza, confermata tra l’altro dalla calorosa accoglienza alla flotta di Bonaparte nello Ionio e dalla pubblicistica greca filofrancese, non è semplice manifestazione del momento, ma ha una storia. Basta ricordare La Dalmatina di Goldoni, presentata nel 1758 al teatro di San Luca a Venezia. Nel dramma un greco di Zante, Lisauro, nasconde la propria identità etnica e si presenta come cittadino di Spalato per sedurre con i suoi “scaltri disegni, e nuovi” la dalmatina Zandira esemplificando così il contrasto fra dalmati e greci, soggetti tutti e due a Venezia, ma insinceri i secondi.[11] Goldoni stesso ammette di avere adoperato qui un topos letterario - come scrive, “Evvi in essa un certo Greco, poco lodevole, ma è uno di quelli del tempo antico, temuti dai Trojani quando ancora recavano loro dei donativi”. Tuttavia sarebbe forse troppo riduttivo far esaurire la complessità del suo personaggio (come pure di Goldoni, che non poteva non essere al corrente degli stereotipi etnici della sua epoca) nella sua dimensione leggendaria-narrativa invece di rafforzarla con un altro luogo commune della letteratura politica veneziana, cioè l’opposizione tra i leali sudditi di Dalmazia e i greci, che furono paragonati a “fiere selvaggie”.[12] D’altra parte, si tratta della stessa distanza che, assai più tardi, fu rilevata di nuovo dal filoaustriaco Fabio Mutinelli. L’autore delle Memorie storiche sottolinea che i Greci e i Dalmati non formavano una nazione perché l’unico loro legame comune era di essere sudditi delle famiglie nobili di Venezia.[13] Proprio il contrario di quello che aveva utopisticamente sperato la Lettera al cittadino Bonaparte di Giuseppe Andrea Giuliani auspicando che i popoli del Levante, della Dalmazia, dell’Istria, di Venezia e della Terraferma si stringessero “con un dolce nodo indissolubile”,[14] risolvendo in questo modo zuccherino i drammatici conflitti che sconvolgevano classi e nazioni in quel momento.

La figura di Lisauro è però solo una delle numerose versioni dell’immagine negativa del greco a Venezia in questo periodo. Tra di esse il caso forse più clamoroso fu la rappresentazione offertane dalla tragedia storica di Giovanni Pindemonte I coloni di Candia (1785).[15] L’opera che, secondo quel che scriveva il 15 gennaio 1785 Luigi Ballarini, segretario di Daniele Dolfin, ambasciatore a Parigi e Vienna, parlava delle “seduzioni, li tradimenti, le ribellioni e malafede dei greci contro i veneti”,[16] fece riempire il teatro di San Giovanni Grisostomo cinque sere di fila, ma fu sospesa a causa della protesta della communità greca a Venezia. Nel loro memoriale al doge, membri della detta communità si lamentarono per il come venisse “dipinta l’intiera nazione greca quasi di sua natura immancabilmente perversa, traditrice, amica della fellonia e della ribellione, odiatrice del veneto nome, nemica del rito religioso della Republica, quasi fanatica e furibonda propagatrice del proprio”.[17] Come ha dimostrato Franca Barricelli, l’uso ideologico della storia nell’opera evocava paure contestuali riguardo alla fragilità di Venezia sullo scacchiere politico internazionale e rivelava “anxieties about ethnic mixing in the city’s civic identity, an identity largely shaped by a patrician ruling class that came to associate what was foreign with more general threats to the Republic in the course of the eighteenth century”.[18] Nel contesto di tali pregiudizi e animosità tra veneziani e greci si può capire anche il lamento di Andrea Mustoxidi che, qualche decennio più tardi, nel 1821, scriveva all’amico conte Giovanni Querini Stampalia:

“Generalmente i tuoi concittadini non amano noi Greci e per una vicenda assai propria delle condizioni umane veggono con gelosia gli sforzi generosi d’una nazione alla quale pur gli uniscono tanti vincoli di commercio, di cultura, di signoria. E il Turco fu il comune nostro nemico”.[19]

Proprio nell’epoca di Mustoxidi fu la satira con le sue violente enfatizzazioni a tradire il luogo comune del greco come personaggio negativo. Pietro Buratti dedicò un intero poema, la Streffeide o vita, miracoli e matrimonio di Nicoleto Streffi greco (1820-1822), a denigrare il corcirese scrittore di versi Nicolò Streffi, reo di averlo ridicolizzato ad un pranzo sollevandogli la parucca. Nell’opera le grecate dell’avventuriere Streffi - che abbandona la sua isola in cerca di fortuna, corteggia (come altro Lisauro) in vano una fanciulla a Zara e in fine arriva a Venezia, dove stringe amicizie con l’aristocrazia locale e sposa una vedova inglese - diventano l’occasione per una satira della “razza grega” e della “grega pestilenza”.[20]

In una prospettiva comparatista il discorso sulle Isole Ionie introduce la questione di un evento storico interpretato in modi diversi da individui e da “comunità emotive”[21] diverse. Infatti il problema per gli ex-nobili veneziani è come riconoscere le perdite subite dai sudditi e, contemporaneamente, trovare un modo legittimo per piangere quelle proprie. Siccome la storia, come il trauma, non appartiene mai semplicemente ad un individuo o ad un gruppo, ma è precisamente il modo con il quale tutti sono implicati nei traumi degli altri,[22] possiamo leggere le reazioni veneziane non solo in rapporto ai forti legami di Venezia con le Isole, ma anche in relazione con il trauma di un altro gruppo, quello dei greci.

La voce dei greci sembra essere diversa, almeno in alcuni casi. Nella sua opera Διάλογος δύο Γραικών κατοίκων της Βενετίας , όταν ήκουσαν τας λαμπράς νίκας του Αυτοκράτορος Ναπολέοντος (Dialogo di due greci abitanti di Venezia, quando sentirono le vittorie illustri dell’imperatore Napoleone) edita a Venezia nel 1805, Adamantios Korais commenta la liberazione dell’Eptaneso “dal giogo di Venezia” ammirando il gran numero delle scuole istituite in Grecia come pure i libri pubblicati su di essa grazie ai cambiamenti politici portati dai Francesi.[23] Alla stessa letteratura critica appartiene ancora l’indignata testimonianza di Ugo Foscolo contro il malgoverno e l’emarginazione culturale nello Ionio. Foscolo lodava i “novelli Greci” che abbracciavano le idee repubblicane nelle Isole, “ove la prepotenza proconsulare, i sacerdotali prestigi e la confinante ferocia degli Albanesi avean ormai fatto divenire natura in quei popoli l’avvilimento, l’ignoranza e la barbarie”.[24] In tale prospettiva politica Mustoxidi, in una sua lettera a Mario Pieri, criticava il dominio veneziano per aver fatto dimenticare la lingua antica ai greci, sottolineando così il ruolo della parola nella presa di coscienza di un’identità linguistica e perciò nazionale secondo i principi del nazionalismo romantico.[25] In realtà traspare qui il processo di costruzione delle nuove identità nazionali attraverso l’identificazione degli antenati e la presa di coscienza del passato: un processo a cui concorrono la redazione di storie locali antiche come fa Mustoxidi con Corfù e i Petrizzopulo e Papadopulo-Vretòs con Santa Maura ora chiamata Leucade e al quale allude il prete dei corciresi, quando ricevette il generale francese Gentilly brandendo una copia dell’Odissea che sotto specie di dono fu proposta come emblema della qualità passata e futura dei Greci.[26]

Come nel caso dei veneziani, così nei testi dei greci l’esperienza traumatica dei sudditi, al di là della dimensione psicologica della sofferenza, suggerisce che l’immediatezza degli eventi, paradossalmente, possa prendere la forma del differimento. Nell’autobiografia di Mario Pieri in particolare l’eccesso funziona da spia della presenza del trauma che mette in atto il modello della compulsione ripetitiva: “mi vengo a toccare una ferita che dopo tanti anni stilla ancor sangue!”.[27] Il trauma è qui usato nel senso primario, greco antico, della parola ossia ferita fisica e non psichica in un tentativo di far aumentare la forza espressiva dei significati. Se lo sconvolgimento personale dell’autore indica la difficoltà di integrare la realtà dell’arretratezza culturale della sua terra natale, nello stesso tempo esso riflette sia strutturalmente sia tematicamente la resistenza del trauma a rappresentarsi e a scriversi come evento passato.

L’antivenezianismo di Pieri si esprime attraverso la critica dei vari luoghi di divertimento a Corfù (“teatri”, “casini”, “festini”, “maschere”, “giostre”, “scandalosi solazzi”) e s’indirizza contro la mancanza di istituti di educazione sull’isola - sebbene una sua “cara e insieme triste lettura”, “quella d’un poema cavalleresco in idioma greco moderno, intitolato Erotocrito, in versi detti politici o alessandrini” al quale da piccolo dedicava “intere giornate, e lacrimando e fremendo”, potesse idealmente rappresentare un giudizio positivo indiretto nei riguardi della presenza veneziana a Creta. Tuttavia è il suo tentativo di comunicare la sua rabbia e di stimolare il patriottismo dei suoi lettori la causa che detta l’uso selettivo dei suoi esempi. È molto vivace la descrizione del primo incontro di Pieri col salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, dove ebbe l’occasione di conoscere Ippolito Pindemonte e di suscitarne la curiosità. Questi gli poneva domande sul governo veneziano nello Ionio “sul come ivi fiorivano i buoni studi, e come vi provvedevano i nostri veneti governatori”. Il resoconto dato dal Pieri sullo stato miserando della cultura in quelle isole, prive di scuole, biblioteche, stamperie e librai fece inquietare il letterato veronese, che si rivolse con indignazione ad alcuni patrizi ivi presenti: “Così dunque sono trattati i nostri fidi popoli del Levante? Eglino balbettarono non so che scusa, apponendone ad altri la colpa, e così ebbe fine quella prima sera”.[28] Come risposta alla richiesta di spiegazioni da parte di Pindemonte, le reazioni d’imbarazzo dei suoi interlocutori non solo confermano “che il gusto letterario e non l’orientamento politico [costituiva] l’identità del gruppo” ritrovato nel salotto veneziano.[29] Le voci inarticolate e confuse dimostrano soprattutto la difficoltà di quella elite aristocratica a connettere esperienze e traumi, conseguentemente a raccontare una storia diversa basata sulla possibilità liberatrice di una ricognizione reciproca.

Non facile dunque conciliare eredità divise e ferite aperte. Quelli che celebravano la fine delle “servili cattene di un tiranno governo”[30] dovevano convincere quelli che credevano che “li Veneti sudditi amassero il Governo” e che fossero contenti “del dolce Regime della Veneta Aristocrazia”.[31] Come scrive Pieri, la democrazia del ‘97-98 non fu subito compresa dai contadini: “udivasi non di rado tra di loro sospirare dietro la memoria del governo veneto, e desiderarlo appellandolo del nome di padre”. La causa secondo lui era l’abitudine e la rassegnata accettazione della tirannia da parte del popolo “ch’è uomo pecora”: Venezia è “città di schiavi e d’infami”, che rende “i suoi popoli tante pecore, senza coraggio, senza costumi, e senza nessuna virtù”.[32] Tuttavia c’era anche un altro gruppo di persone disposte a sentire nostalgia per il governo veneto: come raccontavano la Lettera scritta dal cittadino Giovanni Sicuro dal Zante a suo fratello in Venezia in data 5. Luglio 1797 (Venezia, Casali, 1797) tutti gli abitanti delle isole erano contenti per l’arrivo dei francesi “a risserva di pochi nobili, che vivevano delle cariche, e di pochi altri, a quali doleva la perdita della nobiltà”. Erano soprattutto i magistrati veneziani quelli che dovevano soffrire di più secondo la critica del Summario di tutte le utilità che percipivano dirette, e indirette li ex-provveditori generali delle isole del Levante (Venezia, Cordella, 1797) che attaccava i provveditori per avere usato la loro carica come fonte di arricchimento personale e delle loro famiglie.

A mo’ di conclusione, vorrei riassumere la problematica di questo intervento che, per forza di spazio, ha seguito un percorso necessariamente breve. Attraverso la percezione della fine della dominazione veneziana nelle Isole Ionie a Venezia, ho cercato di mettere in relazione la storia culturale e la teoria critica sul trauma per evidenziare la dimensione politica del lutto e il suo ruolo nella formazione delle identità nazionali nella prima metà dell’Ottocento. La diversa narrazione degli eventi storici da parte di intellettuali veneziani e greci ha indicato come le memorie di esperienze traumatiche individuali diventino strumenti politici per la costruzione dei miti nazionali. In questo processo luoghi e spazi fisici si trasformano in paesaggi culturali che illuminano le interconnessioni tra investimenti emotivi e processi culturali e politici.[33] Le Isole Ionie sono state uno di questi paesaggi culturali, un sito di memoria e di lutto, che fu coinvolto nel racconto di influenti storie di nostalgia ma anche di trauma imperiale.

 

 

[1] Una versione preliminare di questo intervento è stata presentata al convegno Venezia e le isole Ionie: culture, politica e identità alla fine dell’antico regime organizzato dalla Fondazione Querini Stampalia, in collaborazione con l’Università Cà Foscari di Venezia e l’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara, Venezia 24 Marzo 2003.

[2] Vedi indicativamente K. Erikson, “Notes on Trauma and Community”, in Trauma: Explorations in Memory, a c. di C. Caruth, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1995, pp. 183-199; K. Tal, Worlds of Hurt: Reading the Literatures of Trauma, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; D. LaCapra, Writing History, Writing Trauma, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 2001; J.C. Alexander, R. Eyerman, B. Giesen, N.J. Smelser, P. Sztompka, Cultural Trauma and Collective Identity, Berkeley, University of California Press, 2004.

[3] C. Povolo, “The Creation of Venetian Historiography”, in Venice Reconsidered. The History and Civilization of an Italian City-State, 1297-1797, a c. di J. Martin - D. Romano, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2000, pp. 491-519; M. Infelise, “Venezia e il suo passato. Storie miti "fole"”, in Storia di Venezia. L'Ottocento e il Novecento, a c. di M. Isnenghi - S. Woolf, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2002, pp. 967-988.

[4] S. Stewart, On Longing: Narratives of the Miniature, the Gigantic, the Souvenir, the Collection, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1984, p. 23.

[5] Si vedano indicativamente Levante veneziano. Aspetti di storia delle Isole Ionie al tempo della Serenissima, a c. di M. Costantini – A. Nikiforou, Roma, Bulzoni, 1996; Il Mediterraneo centro-orientale tra vecchie e nuove egemonie : trasformazioni economiche, sociali e istituzionali nelle isole Ionie dal declino della Serenissima all’avvento delle potenze atlantiche, a c. di M. Costantini, Roma, Bulzoni, 1998; Venezia e le Isole Ionie, a c. di C. Maltezou - G. Ortalli, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2005. Sull’amministrazione veneziana delle Isole vedi soprattutto A. Viggiano, Lo specchio della Repubblica. Venezia e il governo delle isole Ionie nel Settecento, Verona, Cierre Edizioni, 1998.

[6] A. Tenenti, “Il senso dello stato”, nel suo Venezia e il senso del mare. Storia di un prisma culturale dal XIII al XVIII secolo, Milano, Guerini e Associati, 1999, pp. 373-414.

[7] L. Bossi, Memoria patriotica sui novellisti, Venezia, Zerletti, 1797.

[8] Biblioteca del Museo Correr di Venezia, Cod. Cicogna 2845, p. 4211, 28 agosto 1816. Il corsivo è mio.

[9] G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia, s.n., 1855, p. 81.

[10] Dialogo interessante seguito in Venezia fra Marco e Teodoro sull’alba del giorno cinque aprile dell’anno MDCCXCVIII. Raccolto e dato in luce da N.N., Venezia, Gatti, [1798].

[11] C. Goldoni, La Dalmatina, a c. di A. Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2005. Cfr. L. Wolff, “Venice and the Slavs of Dalmatia: The Drama of the Adriatic Empire in the Venetian Enlightenment”, Slavic Review 56.3 (1997), pp. 428–455; Id., Venice and the Slavs: The Discovery of Dalmatia in the Age of Enlightenment, Stanford, Stanford University Press 2001, pp. 25-29, 31-35, 55-75.

[12] Per questo riferimento vedi F.M. Paladini, “Un caos che spaventa”. Poteri, territori e religioni di frontiera nella Dalmazia della tarda età veneta, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 47-48.

[13] F. Mutinelli, Memorie storiche, Venezia, Grimaldo, 1854, p. 187.

[14] G.A. Giuliani, Lettera al cittadino Bonaparte generale in capo dell’armata francese in Italia, Venezia, Zatta, 1797, p. 9.

[15] G. Pindemonte, “I coloni di Candia”, in Componimenti teatrali, vol. 1, Milano, Sonzogno, 1804, pp. 189-283. Cfr. Ν.Γ. Mοσχονάς, “I Coloni di Candia, τραγωδία του Ιωάννη Pindemonte”, Ο E ρανιστής 144, fasc. 45-46 (1970), 91-110. Si veda soprattutto F.R. Barricelli, “Imperial Mythologies: Ethnicity and Rebellion on the Eighteenth-Century Venetian Stage”, Studies in Eighteenth Century Culture 32 (2003), 245-276.

[16] P. Molmenti, Epistolari veneziani del secolo XVIII, Milano, Sandron, 1914, p. 17; Barricelli, op. cit., p. 257.

[17] Dissertazione critica sulla tragedia intitolata ‘I coloni di Candia’, Coira, s.n., 1785, p. 64. Cfr. Barricelli, op. cit., 256-258.

[18] Barricelli, op. cit., p. 253. Inoltre, nelle pp. 262-264 l’autrice evidenzia la presenza russa nel Mediterraneo per capire la percezione veneziana dei greci ortodossi alla fine del Settecento.

[19] A. Stouraiti, La Grecia nelle raccolte della Fondazione Querini Stampalia, Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, 2000, p. 268.

[20] V. Malamani, Pietro Buratti e la società veneziana del suo tempo (analisi di un poema inedito), Torino, La Letteratura, 1890; M. Dazzi, “Pietro Buratti (1772-1832)”, Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 116 (1957-58), pp. 201-239.

[21] B.H. Rosenwein, EmotionalCommunities in the Early Middle Ages, Ithaca, Cornell University Press 2006.

[22] Questa è l’idea principale di Freud nel Moses and Monotheism (1939). Cfr. C. Caruth, Unclaimed Experience. Trauma, Narrative, and History, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1996, pp. 8, 24.

[23] Α. Κοραή, Τι πρέπει να κάμωσιν οι Γραικοί εις τας παρούσας περιστάσεις ; (Διάλογος δύο Γραικών), Αθήνα, Νίκα, 1956, pp. 24, 41.

[24] U. Foscolo, Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a c. di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1972, p. 49. Vedi inoltre U. Foscolo, Prose politiche e apologetiche (1817-1827), Parte prima: Scritti sulle Isole Ionie e su Parga, a c. di G. Gambarin, Firenze,, 1964. Cfr. i simili commenti di Foscolo e di Pieri citati da M. Pastore Stocchi, “1792-1797: Ugo Foscolo a Venezia”, in Storia della cultura veneta, vol. 6, Vicenza, Neri Pozza, 1986, p. 24.

[25] Lettere di illustri italiani a Mario Pieri, a c. di D. Montuori, Firenze, Le Monnier, 1863, p. 182.

[26] Lettera che vien da Milano, mandata dal general Bonaparte per le truppe francesi partite da Venezia per Corfù, e la discrizion dell’unione dell’isole del Zante, Ceffalonia, e S. Maura, e la parlata che fece il papà de’ Greci al general Gentili, Venezia, Cordelli, 1797. Sulla storiografia locale cfr. A. Mustoxidi, Illustrazioni corciresi, Milano, Destefanis, 1811-1814; D. Petrizzopulo, Saggio storico sulle prime eta dell’isola di Leucadia nell’Jonio, Firenze, Piatti, 1814; A. Papadopulo-Vretò, Alcune osservazioni sulla Memoria su di alcuni costumi degli antichi Greci tuttora esistenti nell’isola di Leucade nel Mare Jonio, Corfù, s.n., 1825; Id., Su le tre città conosciute anticamente sotto il nome di Leucade, Venezia, Alvisopoli, 1830.

[27] M. Pieri, Opere, t. 1, Vita scritta da lui medesimo, vol. 1, Firenze, s.n., 1850, p. 19.

[28] Ibidem, pp. 18-19, 41-42.

[29] M.T. Mori, Salotti. La sociabilità delle élite nell'Italia dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2000, p. 96.

[30] Lettera venuta dal Zante, ossia discorso fatto in pubblico da un cittadino democratizato di Zacinto, mostrando la vera felicità del Governo presente, Venezia, Cordella, 1797, p. 3. Cfr. l’Avviso datto dal cittadino [Benetto] Pieri al popolo di Corfù, e paragrafo di sua lettera, Venezia, Casali, 1797.

[31] Memoria che può servire alla storia politica degli ultimi otto anni della Repubblica di Venezia, London, Rivington, 1798, p. 225.

[32] Pieri, op. cit., pp. 79-80, 446. Qui Pieri riprende un tema - l’ignoranza del popolo - caro alla pubblicistica dell’epoca. Cfr. Mi vorave che la finissi una volta. Discorso al popolo nel suo dialetto dell’autore dell’ultima risposta all’ex-patrizio, Venezia, Curti, 1797.

[33] Landscape, Memory and History: Anthropological Perspectives, a c. di P.J. Stewart - A. Strathern, London, Pluto Press, 2003; G. Dawson, “Trauma, Place and the Politics of Memory: Bloody Sunday, Derry, 1972-2004”, History Workshop Journal 59 (2005), pp. 151-178.